Il racconto della lunga giornata di soccorso al Porto di Marina di Carrara dove il 13 luglio scorso ha attraccato la nave Ocean Viking della ONG SOS Mediterranée nelle parole dei Volontari della Fratellanza Militare
E’ il 13 luglio. Una giornata di piena estate, siamo al Porto di Marina di Carrara. Potrebbe sembrare l’inizio di un racconto di una bella vacanza e invece ecco che ancora una volta, come spesso la cronaca ci narra, questo è il racconto di una giornata impegnativa che ha visto vari Enti, Organizzazioni, autorità civili e militari, partecipare tutti insieme alle operazioni di sbarco e soccorso di 261 migranti.
Sono le ore 14 quando la nave Ocean Viking della Ong SOS Mediterranée attracca al Porto presso la Banchina Fiorillo, iniziano le prime operazioni di sbarco: le autorità competenti ispezionano la nave e i primi migranti vengono accompagnati presso i padiglioni di Carrara Fiere per i vari controlli sanitari ed essere rifocillati prima di essere portati ai centri di accoglienza. Il prefetto Guido Aprea comunica che tra i 261 migranti, ci sono 191 uomini, 13 donne, i minori con familiari sono 20, invece altri 37 minori non sono accompagnati da nessuno. Si tratta dello sbarco più numeroso per il Porto di Marina di Carrara da quando il Porto è stato adibito a tali operazioni.
Due dei nostri volontari erano presenti al punto di primo soccorso allestito a Carrara Fiere. Nelle loro parole riviviamo il racconto di quei momenti e capiamo perché anche il più preparato dei soccorritori in realtà non può mai essere al riparo dalla carica emotiva che deriva dall’affrontare situazioni così difficili. Cercare di mantenere il distacco è fondamentale per ogni soccorritore, per far sì che la mente rimanga vigile durante l’emergenza ed anche per non farsi sopraffare dagli eventi. Ma quello che gli occhi dei nostri volontari hanno visto rimarrà sicuramente indelebile nei loro ricordi, e noi, che non eravamo lì con loro possiamo solo immaginare i loro pensieri durante le varie operazioni di assistenza e soccorso.
Paolo Bertini, ci racconta le prime fasi del servizio, quello che passa nella mente di un soccorritore, che, ricordiamolo, è lì in veste di volontario. Le difficoltà di organizzare tutto, coordinarsi, e poi ecco che arrivano i primi migranti. Tra loro tanti bambini.
“Siamo partiti sabato mattina alle ore 10 per un servizio che non avevamo mai svolto pur essendo due volontari con abbastanza esperienza siamo partiti come sempre con la voglia e lo spirito di fare del nostro meglio, arrivati sul posto dopo aver preso istruzioni dal Coordinamento Regionale Maxi Emergenze ci siamo messi all’opera cercando di organizzare al meglio la macchina dell’accoglienza. Quando tutto era pronto è cominciato lo sbarco dei migranti. Un’esperienza toccante; guardare e aiutare queste persone che hanno affrontato un viaggio stremante… le scene più toccanti sono state vedere donne e bambini anche in tenera età che hanno affrontato il viaggio con la vita e tanti sogni racchiusi in un sacchetto”.
Cercare di crearsi una “bolla” in cui entrare e mantenere un certo distacco questa volta non è facile.
Martino Falorni, anche lui volontario della Fratellanza Militare intervenuto insieme a Paolo, ci racconta perché è stato così difficile, anzi forse impossibile, continuare a mantenere in certi frangenti quella bolla di distacco. Momenti in cui quella bolla si “squarcia”, come ha raccontato lui stesso, e le emozioni viaggiano insieme alla razionalità che pur, vuoi o non vuoi, deve rimanere lì a fare il suo compito.
Questo il suo racconto di questa intensa giornata.
“Ogni soccorritore sa che per poter aiutare gli altri bisogna mantenere un certo distacco tra noi e l’intervento. Ce lo ricordano bene le informazioni di sicurezza a bordo degli aerei, rimarcando come prima di aiutare gli altri ad indossare la maschera per l’ossigeno, si debba avere addosso la propria. E’ con questa distanza, sviluppata per poter svolgere i nostri servizi, che mi sono approcciato all’ultimo intervento, lo sbarco di 261 migranti a bordo della Ocean Viking, la nave della ONG SOS Mediterranée.
Al nostro arrivo infatti abbiamo effettuato la registrazione, preparato l’impianto elettrico nelle tende da visita, collocato le barelle al loro posto, pulito, sistemato le sedie, e predisposto tutta l’area in modo che potesse essere utilizzata come checkpoint sanitario. La mente è impegnata nella logistica, il servizio è la copia di molti altri già effettuati. Una volta pronti, l’attesa. Ed è lì che avviene il primo squarcio di questo distacco.
Mi siedo con le donne del sistema AntiTratta, alle quali avevo dato mano ad allestire il tavolo da colloquio. Lì esco dalla bolla che mi ero creato. Non sono più notizie che si sentono al di là di un televisore, è tutto molto vicino adesso, di lì a poco sarebbero arrivate in quel padiglione 261 persone, alcune probabilmente già parte di una tratta di esseri umani, tutte le altre a rischio di finirci.
Secondo squarcio; Guardo i tre gazebo allestiti come ambulatori: Generico, Dermatologia e Ginecologia. Il medico all’ingresso ci spiega dove dovremo accompagnarli: chi è sospettato di avere la scabbia, braccialetto verde, dal dermatologo. ≪Le donne, tutte, in ginecologia≫. Un attimo di perplessità, poi ho unito i puntini. Le storie del telegiornale non erano più dall’altra parte di uno schermo. ≪Delta-Sierra da Delta-Romeo≫, iniziano le comunicazioni radio ed arrivano i primi pulmini della “piccola noria”, un termine complesso che indica la spola continua tra la nave ed il padiglione dove eravamo noi. Prima un paziente in barella, poi i nuclei familiari, poi i minori non accompagnati, infine tutti gli altri, ad uno ad uno, fino alla mezzanotte, ogni migrante della Ocean Viking seguirà lo stesso percorso.
Terzo squarcio; Osservo uno dei ragazzi non accompagnati, porta con sé una sacchetta in plastica da portare in spalla, di quelle piccole che danno alle fiere. Ho bisogno di un secondo sguardo per rendermene conto, lui ha racchiuso tutta la sua vita, i suoi oggetti, i suoi ricordi, in un sacchetto di spazio. Le ore continuano, la procedura si ripete, braccialetto col numero, foto, cartellino con la lingua parlata, misurazione della temperatura, visite e check out, fino ad essere accompagnati dall’altro lato dell’hub dove la polizia inizia le identificazioni e fornisce i primi documenti. Gli interpreti camminano per l’hub, accompagnando i migranti durante i vari step. Due spazi, la bolla, fatta di logistica, organizzazione e procedure, e quello squarcio, fatto di sguardi, sorrisi, espressioni, volti e comportamenti. Due spazi che si intervallano nell’arco delle 12 ore del servizio.
Mi siedo al banco della segreteria di uscita per aiutare le operazioni di registrazione. Il compito è semplice. Registrare il migrante sul foglio, numero, sesso, nazionalità ed eventuali note mediche. “Siria, Egitto, Siria, Libia…”.e poi il quarto squarcio, “Bangladesh”. Non sono mai stato un asso in geografia, ma ero pronto a giurare che il Bangladesh fosse più vicino all’India che alle coste nordafricane. Un’altra triste verità, allungare il percorso e passare per il mare a bordo di un’imbarcazione fatiscente rimane comunque la via più sicura per arrivare in Europa.
Quinto squarcio; Dall’altro lato dell’Hub chiedono conferma che un migrante si trovi ancora dal lato sanitario. Vado a cercarlo. Vedo un ragazzo, indico il mio polso per fargli capire che volevo sapere il numero progressivo che aveva sul braccialetto. Lui si mette subito sulla difensiva e mi fa un gesto con l’altra mano che ricorda quello di tagliarsi un braccio. Non so cosa avesse capito, non so cosa intendesse con quel gesto, e non so se voglio davvero scoprirlo.
E’ quasi mezzanotte e tutti i migranti sono sbarcati. I medici e gli infermieri si salutano, noi iniziamo a smontare l’hub. Rimangono solo tutti i saluti fatti al passaggio della segreteria d’uscita. “Salam” per chi parlava arabo, un gesto o un sorriso per tutti gli altri. Si rientra nella bolla. Si torna a casa”.